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Personaggi 3
al centro Mario Carità
Nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1945 moriva nei pressi di Siusi, abbattuto da piombo americano, il maggiore “repubblichino” Mario Carità. Si era rifugiato lassù dopo il crollo del nazifascismo con un ingente quantitativo di denaro e preziosi, sperando di poterla fare franca. Ma così non è stato. La notizia, incompleta, apparve in poche righe nel primo numero (24 maggio 1945) del giornale del Comitato di Liberazione, Alto Adige. Eccola: “Il maggiore Mario Carità, capo delle SS italiane, è rimasto ucciso con la sua amante in un albergo delle Dolomiti durante una sparatoria con dei soldati americani che vi si erano recati per catturarli. Sono pure rimasti uccisi due soldati americani”. Del caso si scrisse diffusamente solo il 4 maggio dell’anno successivo, nel 1946, quando si venne a sapere del “tesoro” che il maggiore aveva portato con sé. Ma vediamo anzitutto chi era, Mario Carità. Nato a Milano nel 1904, a soli 15 anni si associò ad una squadraccia fascista. Partecipò alla invasione della Grecia con il grado di centurione (equivalente a capitano) di un manipolo (equivalente a compagnia) di Camicie Nere. Nell'autunno del 1943 Carità costituì a Firenze un reparto di polizia della neonata Repubblica Sociale Italiana, il "Reparto di servizi speciali". Formalmente doveva essere inquadrato nella 92 Legione Camicie nere, ma di fatto era completamente autonomo. Carità aveva ora il grado di “seniore” (equivalente a maggiore) della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e il suo reparto diventerà famoso come "la Banda Carità" che contava inizialmente su un organico di circa di una sessantina di elementi, suddivisi in tre squadre: la "Manente", comandata da Erno Manente, che si autodefiniva "la squadraccia degli assassini"; la "Perotto", chiamata anche "la squadra della labbrata", e infine la “squadra dei quattro santi”. Il primo quartiere generale del reparto fu a Firenze, presso un edificio di largo Fanciullacci, dove si torturava e si uccideva, tanto che l’edificio prese il soprannome di “Villa Triste”. Poi si trasferì nel rodigino ed a Padova (palazzo Giusti). La “banda Carità” è stato il gruppo che ha inferto i maggiori danni all'organizzazione partigiana in Toscana e nel Veneto. Era il braccio armato dell'antiresistenza. Un caso classico era l'infiltrazione nelle bande partigiane e l'eliminazione dell'élite intellettuale. L’azione di Carità fu talmente efferata che il 14 dicembre 1943 dovette perfino scrivere una lettera di giustificazione a Mussolini, al quale ricordò che solo con la violenza era riuscito a diventare Duce. Alla fine la banda passò sotto il comando delle SS, ma intanto la guerra era avviata alla sua conclusione. Mario Carità fuggì verso nord con la sua amante Emilia Chiani e due figlie, e trovò ricetto a Siusi nel maso Sielber, di proprietà della famiglia Planötscher. Scrisse l’Alto Adige (4/5/1945): “Prima cura del delinquente, appena messe al sicuro le sue zanne ancora insanguinate sotto il tetto dì una compiacente seppur effimera ospitalità, fu quella di nascondere il suo tesoro. Chiamò la figlia più giovane della famiglia, Frida Planötscher e le affidò una busta di cuoio contenente un milione e quattrocentomila lire in liquidi, duecento monete d'argento di vario conio, due orologi d'oro, quattro anelli d'oro, di cui uno con brillante di raro valore. Il tutto venne in un primo tempo nascosto dalla signorina Frida in una mangiatoia della stalla del maso”. Ma nella notte tra il 18 e il 19 maggio il Carità e la sua amante furono sorpresi da militari americani (una delazione?): ci fu un conflitto a fuoco, il Carità morì, la sua donna fu ferita (la notizia di un anno prima la dava per morta), illese le due figlie del maggiore che erano state da lui dislocate prudentemente in un edificio vicino. Si è ipotizzato che il Carità pur di non cadere nelle mani degli alleati, si fosse alla fine suicidato. Diego Meldi (“La Repubblica si Salò”) ritiene che sull’episodio vi siano state non poche ombre. Comunque Frida Planötscher, trovatasi tra le mani quell’autentico tesoro, lo distribuì in parte a quattro persone amiche, tenendosi il resto. Lo vennero a sapere i carabinieri di Castelrotto, e così si apprese anche di una seconda borsa contenente banconote da mille e da cinquecento lire che il “famigerato maggiore” aveva nascosto nel sottotetto del maso, e che l’umidità aveva danneggiato. La Planötscher e i suoi amici vennero denunciati per appropriazione indebita aggravata.