Bolzano scomparsa


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Bruno Bertoldi

Personaggi 4









Bruno Bertoldi

Le prime due navi cariche di prigionieri italiani sopravvissuti alla strage di Cefalonia furono silurate ed affondate. La terza ed ultima arrivò invece indenne ad Atene e il sergente Bruno Bertoldi, che vi era salito, ebbe salva la vita. Lasciava alle sue spalle la resistenza inutile ai tedeschi che, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, avevano preteso la resa. I militari della divisione Acqui, d'intesa con i loro comandanti (caso unico di decisione presa collettivamente, in assenza di ordini superiori) si rifiutarono. Resistettero, ma invano: i tedeschi bombardavano con gli Stuka, gli italiani non avevano alcune copertura aerea, la cittadina di Argòstoli fu semidistrutta, si convenne la resa e la Acqui depose le armi. A questo punto gli italiani furono fucilati in massa. Tra gli ufficiali, anche il generale Grevi, del quale il sergente Bertoldi era autista, ma il bolzanino (nativo di Carzano) ebbe vita salva. Si trovò di fronte un sudtirolese con la Maschinenpistole, che l'aveva riconosciuto (s'erano visti all'ospedale militare di Verona) e che gli aveva dato un calcio intimandogli: "Scappa". Dieci giorni imboscato presso una famiglia greca, poi quando la strage cessò Bertoldi si consegnò alla Wehrmacht. Il bilancio? Le cifre oscillano: si calcolano comunque 1.200 italiani morti in combattimento (1.500 i tedeschi), 5.000 fucilati, 2.000 periti in mare sulle navi affondate dagli inglesi. "Siamo arrivati ad Atene - racconta oggi Bertoldi - io fui tra quelli che si rifiutarono di indossare la divisa della Wehrmacht e così fummo caricati su treni che si diressero verso la Polonia. Mi andò bene, perché come meccanico a Minsk (Ucraina) fui messo a lavorare per sei mesi alla riparazione di vari tipi di veicoli, compresi i Panzer. Potevamo mangiare, fummo trattati umanamente, sei anni fa dalla Germania mi è arrivato addirittura un assegno di 2.500 euro, a compenso del lavoro coatto che avevo prestato. Poi però…"
Bruno Bertoldi oggi vive solo al 71 di via Dalmazia, sua moglie è defunta da poco. Nonostante i suoi 97 anni snocciola nomi, date ed episodi con incredibile sicurezza, raggiunge senza ascensore il suo quarto piano. Racconta e racconta.
"Poi però si avvicinano i russi. I tedeschi, in ritirata, hanno l'ordine di non portare con sé prigionieri, ma di fucilarli. Eravamo quattro italiani ed una quarantina tra ebrei, russi e polacchi. Il maresciallo mi dice dell'ordine avuto, ma capisco che disobbedirà. Si carica un treno merci, a noi riservano l'ultimo vagone che il maresciallo lascia aperto e così possiamo fuggire. Camminiamo in una foresta, freddo, fame, ci bloccano i partigiani che ci vogliono arruolare, ci rifiutiamo di impugnare armi, ma li aiutiamo. Dopo ci consegnano all'Armata Rossa e incomincia un lunghissimo trasferimento in colonna, nel gelo. Ho visto gente impiccata lungo la strada, chi non ce la fa viene ucciso, lungo il percorso vengono scavate fosse comuni, quando la terra è gelata i morti vengono bruciati. Camminiamo per due mesi finché arriviamo a Tambov. Il nostro lager non ha baracche, ma grandi fosse scavate nella terra: il tetto - orizzontale con un'unica finestra - è a livello del terreno. Siamo come sepolti. Niente acqua (ci si disseta con la neve), niente elettricità, niente riscaldamento,ogni tre prigionieri una coperta, quando si mangia (non tutti i giorni) arriva una sbobba con cavoli aringhe e pane, sei pani per le 60 persone di ogni baracca, un'epidemia provoca molti morti, siamo pieni di pidocchi, sopravviviamo in 500 e ci caricano su carri-bestiame per raggiungere il Turkestan. Venti giorni di trasferimento, i morti vengono sepolti lungo la ferrovia". Bertoldi racconta poi di nove mesi relativamente tranquilli a raccogliere cotone finché in ottobre non si annuncia "italianski dom": gli italiani a casa. Altro lungo trasferimento in treno (17.000 chilometri) sul quale i morti in ogni carro servono a far da cuscino ai sopravvissuti. A Vienna (ottobre 1945) i russi li consegnano agli americani che li spidocchiano col DDT. "Ero alto un metro e 78 e pesavo 44 chili. Mi caricano sul treno per la Valsugana. Non mi reggo in piedi. Mi aiutano a salire ed arrivo nel buio a Castelnuovo, mi aiutano a scendere, è buio, cado nella neve e lì resto a lamentarmi, incapace di alzarmi, rischio di assiderarmi finché in due, per caso, non mi sentono. "L'è un russo" (avevo in testa un colbacco con la stella rossa). "No, sono el fiol del Bertoldi". "Ma el fiol del Bertoldi l'è morto do ani fa". "No: son mi". Poco dopo tutto il paese era attorno a me, tolta mia madre che non ci voleva credere".

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